Biblioteca Mario Rostoni - LIUC

Catalogo delle tesi di laurea

Facoltà: Economia Aziendale
Collocazione: 27 (Microfiches)

Autore: Eandi Enrica
Data: 22/12/1995

Titolo: Il federalismo fiscale: un confronto tra ipotesi di riforma e valutazioni quantitative per il caso italiano

Relatore: Maiocchi Alfredo

Autorizzazione per la consultazione: SI
Le tesi si possono consultare unicamente in sede

Abstract

"Bisogna che le regioni si sveglino alla vita pubblica, che pongano mano forte nei loro interessi, che alleggeriscano il governo centrale e la finanza commune da un carico troppo maggiore delle forze" Carlo Cattaneo, da "Il Politecnico", 1862. In questi ultimi anni in Italia si e' discusso molto di federalismo. E' entrato a far parte dei programmi dei partiti e movimenti politici; e' stato studiato dagli accademici, accuratamente analizzato dagli opinionisti dei quotidiani piu' importanti, approfondito in tavole rotonde, conferenze e congressi, e per finire sviscerato nei dibattiti televisivi. Il vasto interesse risvegliatosi potrebbe far pensare che il federalismo, come forma di organizzazione possibile per lo Stato italiano, sia una novita'. In realta' di Italia federale si parla da quando l'Italia e' nata; anzi, se ne parlava anche prima, quando le continue annessioni da parte del Regno sabaudo apparivano ormai chiaramente finalizzate ad un progetto di unificazione. Cattaneo guarda con disapprovazione la logica sottostante a questo metodo di costruzione dello Stato italiano. Egli ritiene che non si tratti di unificazione di Stati indipendenti, ma di conquista; si oppone alla pratica del plebiscito come mezzo di ratificazione popolare dell'espansione piemontese, sostenendo che di fatto l'Italia nasce in assenza del consenso dei popoli che la compongono. L'autorita' - rappresentata dalla monarchia e dal suo apparato burocratico - viene imposta senza un processo di investitura dal basso, e "manca un accordo preventivo sulle condizioni dell'unificazione e la successiva gestione della cosa pubblica" (Armani, 1992). Cio' nonostante, l'unita' viene portata a termine. Il nuovo Regno, nel tentativo di integrare l'insieme eterogeneo di stati che ne fanno parte, si trova ad affrontare la "questione meridionale": cioe' il problema di colmare il divario di sviluppo economico, sociale e civile che separa il Nord e il Sud. A coloro che, come Giustino Fortunato, si interrogano sulle possibili soluzioni, pare che solo l'intervento "esterno" possa avviare il Mezzogiorno al progresso; la soluzione centralista viene pertanto invocata come la via piu' rapida.Quanto il centralismo riesca nel suo intento lo si puo' dedurre dalle parole di Don Sturzo, che in un discorso tenuto a Napoli nel 1923 afferma: "... E' purtroppo doloroso dover constatare che da 30 anni si parla apertamente di questione meridionale (prima se ne parlava sottovoce), ma che non si e' riusciti a rimuovere una sola delle cause fondamentali della nostra inferiorita' (...)". Sempre Don Sturzo, dopo un'esperienza durata oltre 20 anni come pro-sindaco a Caltagirone, scrive: " ad uno Stato accentratore, tendente a limitare e regolare ogni potere organico e ogni attivita' civica e individuale, vogliamo sostituire uno Stato popolare, che riconosca i limiti della sua attivita' (...). Invochiamo l'autonomia comunale, la riforma degli enti provinciali e il piu' largo decentramento nelle unita' regionali". Negli anni successivi, pero', il fascismo agisce in direzione opposta, sovrapponendo il modello di Stato corporativo ad una struttura gia' di per se' centralizzata. Dopo il crollo del regime fascista e la II guerra mondiale bisogna intraprendere la "ricostruzione" dell'Italia, dal punto di vista materiale e istituzionale. Einaudi, liberista, vede in questo momento una buona occasione per smantellare le strutture che ostacolano l'esercizio dell'autonomia di governo a livello locale; invoca l'abolizione dell'autorita' del prefetto, che considera simbolo della centralizzazione di governo. Nel 1944, da Lugano dov'e' esiliato, scrive: "Finche' esistera' il prefetto, la deliberazione a l'attuazione non spetteranno al consiglio comunale ed al sindaco, (...) ma sempre e soltanto al governo centrale (...) o, per parlar piu' concretamente, al ministro dell'interno. Egli approva o non approva i bilanci comunali e provinciali, ordina l'iscrizione di spese di cui i cittadini farebbero a meno, cancella altre spese, [interpreta] leggi, regolamenti, circolari, per ordinare il modo di governare ogni piu' piccola faccenda locale". Anche se il prefetto nell'Italia del dopoguerra rimane, la nuova Costituzione prevede l'autonomia come principio di governo locale; essa stabilisce infatti all'articolo 5 che "la Repubblica, una e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali; attua nei servizi che dipendono dallo Stato il piu' ampio decentramento amministrativo; adegua i principi e i metodi della sua legislazione alle esigenze dell'autonomia e del decentramento".Certo, nella Costituzione non si parla mai di federalismo; nell'ambito dei principi affermati vi pero' sarebbe spazio sufficiente per il rafforzamento concreto dei governi regionali, comunali e provinciali. Invece bisogna arrivare fino agli anni '70 perche' si passi a vie di fatto, con l'emanazione delle leggi che trasferiscono alle Regioni le competenze legislative nelle aree loro riservate dalla Costituzione.Da allora, i governi locali cominciano a scontrarsi con i vincoli dello Stato centrale. Per esercitare le loro funzioni, infatti, Regioni, Province e Comuni dipendono interamente da un sistema di "finanza derivata" basato su trasferimenti statali che negli anni piu' recenti vengono determinati in sede di legge finanziaria, e quindi risultano spesso di ammontare variabile (in quanto soggetto ai tagli di spesa dello Stato).Ci si rende conto che non si puo' parlare di vera autonomia, se si decentra solo il potere di spendere quanto si vuole (perche' se si eccede l'ammontare del trasferimento, lo Stato interverra' sicuramente a colmare il disavanzo) e non dove si vuole (perche', come si chiarira' in seguito, la maggior parte di tali trasferimenti sono soggetti a vincoli di destinazione).E' a questo punto - e siamo arrivati agli anni '80 - che si riscopre il federalismo. Dopo un lungo periodo durante il quale era argomento trattato solo nei testi di finanza pubblica (e comunque quelli anglosassoni), la riforma federale diventa il cavallo di battaglia della Lega Lombarda e si riveste di una duplice immagine: da un lato medicina miracolosa per i mali dell'Italia, dall'altro un modo raffinato per mascherare l'egoismo delle Regioni del Nord, che mirano in realta' a "scaricare" il fardello del Mezzogiorno.Oggi, in realta', il federalismo e' oggetto di un dibattito politico piu' equilibrato che - come si diceva all'inizio - coinvolge un insieme eterogeneo di partiti e movimenti; e questi non sono solo l'espressione delle Regioni del Nord, ma dell'Italia.Alla base di questo rinnovato interesse sta la situazione di crisi in cui oggi si trova il Paese. Per quanto in questa sede non si possano fare che osservazioni estremamente superficiali, si puo' dire che tale crisi presenta alcuni aspetti principali:un aspetto finanziario: da un lato vi e' un debito pubblico che nel 1995 ha superato i due milioni di miliardi (il 125% del PIL); dall'altro si ha una spesa pubblica resa rigida dall'ammontare degli interessi sul debito;un aspetto istituzionale, che traspare nell'instabilita' politica dei governi e che si ripercuote sulla salute economica del Paese;un aspetto morale: negli anni passati il dilagare della corruzione ha coinvolto tutti i livelli di governo, insinuando l'idea che chi svolge una funzione pubblica non abbia il dovere di fare l'interesse dello Stato e dei cittadini, ma debba invece sfruttare le fonti di rendita (le tangenti) cui la posizione ricoperta gli da' diritto.Queste sono le ragioni di fondo che hanno alimentato ovunque insoddisfazione e sfiducia nei confronti dello Stato centrale; resta da spiegare pero' come mai sono state le Regioni del Nord per prime a parlare di federalismo.Occorre considerare allora due argomenti piu' specifici, che attengono al rapporto finanziario tra lo Stato e le Regioni.Il primo, gia' parzialmente accennato, riguarda la struttura del sistema di finanziamento delle Regioni e degli Enti locali; tale sistema e' accusato di essere da un lato troppo basato sui trasferimenti statali e troppo poco su tributi propri; dall'altro poco flessibile, in quanto la grande maggioranza di tali risorse viene vincolata all'origine a destinazioni "imposte" dallo Stato e non sempre aderenti alle reali esigenze locali.Il secondo argomento, costituito dalla cosiddetta "questione redistributiva", probabilmente e' il principale responsabile delle tensioni autonomistiche del Nord Italia; o meglio, e' il problema avvertito su base piu' ampia, poiche' nasce dal confronto tra imposte versate allo Stato e benefici ricevuti dalla spesa pubblica.Il risultato di questo confronto e' che in alcune Regioni del Nord si sente di pagare piu' di quanto non si riceva in termini di quantita' e qualita' di beni e servizi pubblici; mentre le altre Regioni sembrano al contrario ricevere benefici superiori ai costi che sostengono.Questo insieme di fattori - Stato lontano e inaffidabile, crisi finanziaria, servizi pubblici insufficienti a fronte di imposte elevate, unitamente a molti altri che qui non sono stati considerati - ha portato alla richiesta di maggiore autonomia. Dove per "autonomia" si intende da un lato la possibilita' di produrre e fornire localmente i beni ed i servizi pubblici finora gestiti dallo Stato (estensione delle competenze di spesa); dall'altro l'autosufficienza finanziaria, il che significa poter finanziare la spesa - per quanto possibile - con tributi e tariffe gestiti localmente.In sintesi, per il sistema finanziario dello Stato si richiede il federalismo fiscale; e per l'Italia si richiede il federalismo, forma di organizzazione dello Stato caratterizzata da "una divisione delle competenze fra l'istituzione di governo centrale e le istituzioni di governo periferico" dove "entrambi i livelli di governo sono autonomi all'interno delle competenze loro attribuite e (...) quindi egualmente sovrani rispetto ai cittadini". Nel seguire il dibattito sulle esigenze di riforma federale, mi sono posta alcune questioni che rappresentano in realta' gli obiettivi di questa tesi.Anzitutto mi sono chiesta quali vantaggi in teoria (cioe' astraendo dalla situazione italiana e facendo riferimento alla teoria economica) puo' apportare una struttura federale, e con essa il federalismo fiscale: e a cio' e' dedicata la Parte I della tesi.In secondo luogo ho cercato di chiarire, da un punto di vista quantitativo, perche' si cerchi maggiore autonomia di spesa e di finanziamento. Si e' trattato di analizzare l'attuale sistema di finanziamento regionale per identificarne gli squilibri ed i vincoli, e di confrontare entrate e spese dello Stato in ogni Regione per individuare i caratteri dei flussi redistributivi. Questa analisi e' svolta nella Parte II.Nella Parte III, infine, per capire meglio i contenuti dell'espressione "federalismo fiscale", ho esaminato alcune ipotesi di riforma, mettendone in evidenza i caratteri comuni, le aree di intervento e i principi che le ispirano.Prima di entrare in una descrizione piu' dettagliata di questi punti devo precisare che l'analisi e' stata circoscritta al livello di governo regionale e ai suoi rapporti con lo Stato centrale, senza entrare nelle questioni relative agli Enti locali. Tuttavia in molte proposte di federalismo fiscale l'autonomia finanziaria dei Comuni e' di grande importanza, e vi si fara' cenno nel corso dell'esposizione.L'inquadramento teorico si concentra sul tema del federalismo fiscale, inteso come sistema di finanziamento di uno Stato organizzato su piu' livelli di governo.Dopo aver descritto brevemente le principali funzioni proprie dello Stato - di stabilizzazione del reddito, di redistribuzione, di allocazione delle risorse - si introduce il concetto di bene pubblico locale. Con tale termine si intende qualsiasi bene o servizio pubblico i cui benefici si estendono nell'ambito di un'area geografica ristretta (e comunque inferiore al territorio nazionale).Si deve all'esistenza di tali beni non solo la possibilita' di assegnare la funzione allocativa a livello locale, ma anche la convenienza di questa scelta.A dimostrazione di cio' la teoria economica porta il "teorema della decentralizzazione" elaborato da Oates. Il teorema afferma che sotto determinate condizioni (attinenti in particolare ai costi di produzione) e' piu' efficiente affidare ai governi locali il compito di fornire i beni ed i servizi pubblici locali.Il termine "piu' efficiente" deve qui intendersi sia nel senso di un maggior benessere economico connesso alla soluzione decentralizzata (cioe' di un miglior rapporto costi/benefici), sia di soddisfazione di un maggior numero di preferenze individuali.Il concetto di soddisfazione delle preferenze e', insieme al principio di sussidiarieta', il punto di riferimento costante delle ipotesi di riforma analizzate nella Parte III.La risposta della teoria economica alla questione dei vantaggi teorici del federalismo fiscale e' infatti riassunta nel principio di sussidiarieta': i problemi devono essere affrontati al livello piu' basso possibile, con le risorse e gli strumenti di cui si dispone; l'intervento dei livelli di governo superiori si giustifica solo nel caso in cui tali problemi non possono essere altrimenti adeguatamente risolti.La funzione di questo quadro teorico e' anche quella di riassumere i principi dell'imposizione locale sui quali si basano i contenuti delle proposte. In particolare si cerca di stabilire quali imposte possono essere attribuite a livello locale, valutandone le caratteristiche in termini di concorrenza fiscale, omogeneita' di distribuzione della base imponibile e possibile trasferimento dell'incidenza all'esterno della giurisdizione.Nell'ambito della valutazione quantitativa dei fattori di crisi del sistema regionale italiano, si e' cercato in primo luogo di fornire un quadro dell'attuale sistema di finanziamento delle Regioni, a partire dalla sue basi costituzionali.Da questo esame le fonti di finanziamento regionali sono risultate ben lontane dai principi della Costituzione, che in realta' concede ampio spazio all'autonomia finanziaria.E' emerso infatti che i tributi propri (cioe' gestiti a livello regionale, per quanto riguarda aliquote e base imponibile) coprivano fino al 1992 appena il 3% del totale delle entrate regionali, il resto essendo costituito da trasferimenti a vario titolo. Nel 1993 questa percentuale si e' pero' modificata, in quanto sono stati "regionalizzati" i contributi sanitari e la tassa di circolazione; i tributi propri hanno cosi' raggiunto quasi il 50% del totale delle entrate (si veda il Grafico 1).Il problema della valutazione quantitativa dei flussi redistributivi e' stato invece affrontato utilizzando l'analisi del residuo fiscale. Tale indicatore e' costituito dalla differenza, determinata per ogni Regione, tra le spese per beni e servizi pubblici sostenute dallo Stato centrale e le entrate in termini di imposte incassate.Come si puo' intuire, la costruzione del residuo fiscale presenta alcune difficolta' di definizione: occorre infatti decidere quali voci di entrata e di spesa pubblica considerare e con quali criteri ripartirne i valori su ogni Regione (giacche' in gran parte i dati sono originariamente disponibili su base nazionale).Le conclusioni sono abbastanza evidenti: i flussi redistributivi esistono, tant'e' che delle 20 Regioni italiane solo quattro risultano avere un residuo fiscale positivo; tuttavia non sono solo le Regioni del Sud a presentare valori negativi, ma anche alcune Regioni del Nord (in particolare quelle a Statuto Speciale: si veda la Figura 1).Si e' cercato poi di identificare le cause determinanti della redistribuzione, attraverso un'analisi piu' approfondita della distribuzione regionale delle entrate e delle spese che concorrono a formare il residuo fiscale. Pur con la cautela necessaria quando si devono integrare dati provenienti da fonti diverse (quindi poco omogenei), si e' potuto concludere che a fronte di entrate pro-capite sostanzialmente proporzionali al reddito, e quindi fortemente differenziate, si hanno spese pro-capite abbastanza uniformi (a parte le eccezioni rappresentate dai valori delle Regioni di minori dimensioni e quelle a Statuto Speciale); la redistribuzione di risorse da parte dello Stato avviene dunque per mezzo della spesa.La direzione dei flussi redistributivi non e' pero' solamente da Nord a Sud, ma avviene - come si e' detto - anche all'interno del gruppo delle Regioni del Nord, verso le Regioni a Statuto Speciale.Tuttavia non e' solo l'entita' dei flussi redistributivi che risulta preoccupante: e' anche la loro sostanziale inefficacia ai fini di una riduzione del divario interregionale che e' ormai un "male cronico" dell'Italia. Una delle cause di questa assenza di incisivita' dell'intervento pubblico sta nella diversa composizione della spesa pubblica al Nord e al Sud.La domanda di spesa delle Regioni del Nord e' una domanda di beni e servizi pubblici; la domanda di spesa al Sud e' essenzialmente rivolta ai trasferimenti e all'assistenza, che garantiscono un certo livello di consumo ma non influiscono sugli investimenti. La spesa pubblica al Sud non riesce percio' ad incidere sull'apparato produttivo del Mezzogiorno, ed il suo prodotto interno lordo (determinato su base regionale) resta a livelli molto inferiori rispetto a quello delle Regioni piu' sviluppate.Per quanto riguarda infine le proposte di riforma esaminate, queste sono quattro e sono state elaborate da:la Commissione Bicamerale per le Riforme Istituzionali;la Fondazione Agnelli;il Ministero delle Finanze con il Libro Bianco sulla riforma fiscale;la Commissione di riforma della finanza regionale.La selezione delle proposte da esaminare riflette il tentativo di fornire un panorama delle diverse posizioni presenti nel dibattito sul federalismo fiscale.La proposta della Commissione Bicamerale rappresenta la voce "istituzionale". Essa limita il suo campo d'azione ad una proposta di legge costituzionale che consenta l'attribuzione di nuove competenze legislative ed amministrative alle Regioni, senza pero' occuparsi degli aspetti relativi all'autonomia finanziaria.Le ricerche della Fondazione Agnelli forniscono, secondo un'ottica di analisi scientifica, un'ipotesi di riforma "completa". Si va infatti dalle riforme istituzionali all'individuazione di nuove competenze regionali (parte delle quali sono derivate dalla Bicamerale); dalle proposte di autonomia impositiva alla predisposizione di meccanismi perequativi.Il Libro Bianco e' soprattutto un progetto ministeriale di riforma fiscale. Esso costituisce il tentativo del Ministro Tremonti di dare corpo ad una nuova impostazione del sistema tributario nel suo complesso. Il federalismo fiscale ne costituisce solo una parte, per quanto rilevante; le ipotesi avanzate riguardano anche l'autonomia impositiva dei Comuni.Infine, le ipotesi della Commissione per le riforme della finanza regionale esprime nel complesso la posizione dello schieramento politico di centro-sinistra a proposito del federalismo fiscale. Presenta una struttura simile a quella della Fondazione Agnelli; tuttavia non si prevedono riforme istituzionali e, per quanto riguarda le nuove competenze da attribuire alle Regioni, si fa riferimento anche in questo caso al progetto della Commissione Bicamerale.Come si puo' notare le aree di intervento interessate dalle quattro proposte di riforma costituiscono i punti-chiave del federalismo fiscale; ed ogni proposta tende a privilegiarne alcune e a trascurarne altre (si veda, per una sintesi, la Figura 2).Nell'indicare le imposte piu' adatte ad essere gestite localmente si ragiona in termini di omogenea distribuzione della base imponibile, di concorrenza fiscale, di trasferimento dell'incidenza fiscale. Tutte quelle individuate dalle proposte esaminate hanno la caratteristica di essere indirette. Esse hanno come base imponibile i consumi (ad esempio le imposte sul consumo di gas metano, sugli oli minerali e sui tabacchi) oppure gli scambi (le imposte di registro) che risultano essere distribuiti nelle Regioni in modo piu' uniforme che non il reddito nelle sue diverse manifestazioni.Tuttavia, poiche' il finanziamento mediante tributi propri non e' in nessun caso sufficiente a coprire il fabbisogno regionale di spesa, si prevedono compartecipazioni ad uno dei maggiori tributi erariali (l'IRPEF o l'IVA), fino a copertura di un tetto prefissato di spesa.Anche ricorrendo alle compartecipazioni, pero', tutte le altre 19 Regioni presentano uno squilibrio finanziario; la Fondazione Agnelli e la Commissione per la riforma della finanza regionale sottolineano pertanto la necessita' di un intervento perequativo dello Stato, al fine di ridurre il deficit regionale e, con esso, il divario nella disponibilita' di risorse che intercorre tra le Regioni piu' ricche e quelle piu' povere.Le proposte relative alle riforme istituzionali (avanzate dalla Fondazione Agnelli) sono finalizzate sia a garantire che la struttura federale ed il federalismo fiscale siano protetti da ingerenze da parte dello Stato centrale, sia a fare si' che ogni Regione disponga delle risorse e delle competenze necessarie per esercitare le nuove funzioni.Per quanto riguarda il primo obiettivo si propone di rendere le Regioni protagoniste dell'attivita' legislativa nazionale con l'istituzione di una Camera delle Regioni (che potrebbe, eventualmente, sostituire l'attuale Senato). Per il secondo obiettivo si propone invece (e questa e' una delle ipotesi che piu' hanno fatto discutere a livello politico) un "riaccorpamento" delle attuali Regioni, in modo da renderle relativamente equilibrate dal punto di vista dimensionale.Il concetto di federalismo fiscale cui implicitamente si fa riferimento in queste proposte ha la caratteristica fondamentale di consentire una distribuzione territoriale della spesa pubblica che si avvicini il piu' possibile alla distribuzione territoriale del prelievo tributario.In cio' consiste ovviamente il vantaggio che le Regioni italiane piu' ricche, e in particolare le quattro con residuo fiscale positivo, ricaverebbero a breve termine dalla sua introduzione. Simmetricamente, le Regioni piu' povere, per quanto agevolate da trasferimenti perequativi, vedrebbero notevolmente ridotto il loro potere di spesa.E' a questo punto che emerge l'aspetto piu' controverso di questo tema.Posto infatti che il federalismo fiscale risulta essere conveniente dal punto di vista teorico, che il sistema di finanziamento regionale italiano e' indubbiamente inadeguato e caratterizzato dalle distorsioni che abbiamo sottolineato, bisogna valutare due questioni:se effettivamente l'introduzione del federalismo fiscale in Italia puo' portare al contenimento della spesa ed alla conseguente riduzione del disavanzo pubblico;se, date le diverse condizioni economiche, sociali e culturali delle Regioni, sia applicabile concretamente.In realta' tali questioni sono tra loro collegate. E' probabile infatti che l'effetto dell'autonomia impositiva e del decentramento di spesa dipenda molto dalla qualita' (nel senso di efficienza) delle amministrazioni locali, che in Italia (e in particolare nelle Regioni meridionali) e' spesso scarsa. A sua volta, la qualita' dell'amministrazione dipende da fattori civili e sociali, e molti sostengono che da questo punto di vista il Mezzogiorno non sia "pronto" per assumersi tutte le responsabilita' che il federalismo fiscale comporta.Si teme infatti che l'introduzione del federalismo fiscale non sostenuta da un adeguato livello di cultura civile finirebbe con l'aggravare lo squilibrio esistente tra Nord e Sud d'Italia.Si puo' sostenere pero' che questo sia un rischio da correre per stimolare il miglioramento progressivo dell'efficienza dell'amministrazione locale e, contemporaneamente, della cultura civile necessaria all'autogoverno.E' difficile rispondere in modo univoco a tali questioni. Il motivo e' che per prendere posizione bisogna allontanarsi dall'economia ed addentrarsi nella politica, dove piu' che i dati scientifici contano gli interessi che si intendono difendere.

 
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